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Forse il capitolo più contestato della riforma Fornero, quello sull’interruzione dei rapporti di lavoro è anche quello che, naturalmente, più di ogni altro ha inciso sulle garanzie legislative a tutela del posto di lavoro.

Il riferimento, nello specifico, va alle sollecitazioni che interi mesi di dibattito hanno generato all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (legge 300/1970). Cosa prevede, oggi con le modifiche approvate e vigenti, la versione finale della norme che regola il licenziamenti individuali, collettivi, per giusta causa e gli eventuali ricorsi impugnabili?

Andiamo con ordine. L’articolo 1 della riforma del lavoro, legge 92/2012, introduce ai commi 37-41 un nuovo trattamento giuridico per i licenziamenti individuali per ragioni economiche. Per quei datori di lavoro che possano contare su un personale superiore ai 15 dipendenti, infatti, viene determinato l’obbligo di comunicazione del licenziamento alla Direzione Territoriale del lavoro, senza tralasciare i motivi che lo possono avere determinato. A questo atto, farà seguito, dall’autorità chiamata in causa, un tentativo di mediazione tra le parti che, se fallimentare, avrà effetto retroattivo e sarà ritenuto valido sin dalla comunicazione alla Direzione. Lo stesso vale anche per le interruzioni lavorative dovute a ragioni disciplinari.

Se la mediazione va però a buon fine e il rapporto si interrompe comunque per consenso di ambo le parti, il lavoratore mantiene il diritto di usufruire del trattamento previsto in regime di Aspi (Assicurazione sociale per l’impiego). In caso contrario, il lavoratore licenziato ha tempo fino a 180 giorni, rispetto ai precedenti 270, per la presentazione di un ricorso in giudizio. Il termine è calcolato successivamente all’intervallo di 60 giorni necessari per impugnare, invece, una domanda di carattere stragiudiziale. Tutti i licenziamenti successivi al 18 luglio 2012 saranno soggetti a questa nuova normativa.

Breve parentesi sui licenziamenti collettivi (commi 44-46) che vedono posticipata entro il limite di 7 giorni la comunicazione dell’elenco delle mobilità aperte rispetto all’effettiva informazione dei recessi agli interessati. Inoltre, viene specificata la facoltà di sanare eventuali vizi relativi alla comunicazione di avvio della procedura con accordi sindacali conclusi durante la procedura di licenziamento collettivo.

Passiamo ora alle spine del licenziamento illegittimo (commi 42-43) e le contestate modifiche all’articolo 18, attive per tutti i licenziamenti seguenti il 18 luglio scorso: la parte più discussa di tutta la riforma del lavoro promossa dal ministro Fornero e dal premier Mario Monti. Sui licenziamenti individuali, le causali che possono innescare un procedimento di fine rapporto restano quelle in vigore di giusta causa e giustificato motivo soggettivo o oggettivo. Vengono però rivisitati gli effetti che si verificano a un licenziamento ritenuto illegittimo. In precedenza, il risarcimento per ogni licenziamento valutato illegittimo consisteva esclusivamente nel reintegro tout court del posto, con la conferma dei trattamenti economici corrisposti prima della vertenza.

Ora, invece, in conseguenza di un licenziamento illegittimo vengono introdotte quattro possibili conseguenze. Un ventaglio che si apre da reintegrazione a risarcimento, a loro volta distinti tra applicazione “piena” o “attenuata“. In regime di reintegrazione “piena” si contempla l’opzione per le 15 mensilità e il riconoscimento dei periodi pregressi, mentre per la versione attenuata si pone il tetto di 12 mensilità riconosciute e il versamento della contribuzione sospesa tra recesso e reintegrazione. Il regime risarcitorio pieno, invece, porta al riconoscimento di mensilità tra 12 e 24, per concludere con il ”attenuato” che riduce le mensilità da 6 a 12.

Questi gli ambiti empirici di applicaizone: la piena reintegrazione si applica nel caso di licenziamento discriminatorio a vario titolo come maternità, o licenziamento orale; la reintegrazione attenuata interviene in casi di giustificato motivo soggettivo o giusta causa per insussitenza del fatto, o ancora in caso di licenziamento intimato per inidoneità fisica o psichica o ancora per licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, nel caso di “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento”. Passando, invece, al regime dei risarcimenti, essi possono essere “pieni” nelle condizioni in cui si verifichino vizi procedurali ai licenziamenti collettivi, o, ancora, nella giusta causa che non rientri nele ipotesi previste per la reintegrazione; il regime risarcitorio attenuato entra in atto nell’eventualità di licenziamento privo di motivazione scritta o, ancora, nel caso di violazioni formali nei procedimenti che precedono il licenziamento, fatti salvi i casi in cui il giudice riscontrerà un difetto sostanziale, che porterebbe all’applicazione di uno dei regimi precedenti.

Le controversie in materia di licenziamenti, poi, prevedono l’apertura di un rito processuale semplificato, depurato di tutti gli orpelli ritenuti non essenziali alla conclusione del dibattimento in tempi rapidi. Due le fasi inserite nel primo grado di giudizio: si parte dalla tutela urgente del lavoratore finché la domanda è accolta o respinta, per passare poi all’eventuale opposizione alla decisione adottata, per mezzo di un apposito ricorso. La sentenza di primo grado potrà essere impugnabile in corte d’Appello o in Corte di Cassazione. Anche qui, le modifiche sono in vigore per le controversie aperte dopo il 18 luglio 2012.

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